rosaria la colpevole

senso di colpa e attacchi di panico

Senso di colpa e attacchi di panico: Rosaria

Questa è la storia vera di Rosaria, che faceva una vita d’inferno a causa del senso di colpa.

Rosaria, una signora di 45 anni, alta, abbastanza snella, con capelli bruni, lunghi, molto ben curati. Il suo portamento, però, era un po’ ricurvo, come se stesse tirandosi indietro; la stretta di mano era leggera e delicata.

Ciò che mi colpì di più, appena entrò nello studio, fu il suo modo molto misurato, quasi guardingo di muoversi nella stanza e di andarsi a sedere: sembrava si muovesse in un negozio di porcellane.

Aveva un sorriso dolce, che usava molto, pure troppo: sorrideva anche quando parlava dei suoi problemi. Anche i suoi modi erano molto gentili, ineccepibili.

La prima cosa di cui si lamentò fu che faceva una vita d’inferno, specie al lavoro. E questo era il motivo che l’aveva portata da me.

Mi spiegò che ogni volta che un superiore, ma anche un collega, le faceva un’osservazione si sentiva malissimo: arrivava ad avere crisi di panico, insonnia e voglia di farla finita.

Le sue colleghe e i suoi colleghi l’aiutavano quando si sentiva proprio male; ma per lo più la criticavano perché dicevano che lei prendeva tutto in modo spropositato. E comunque, in qualche modo “ce l’avevano tutti con lei”. Ultimamente aveva avuto proprio  l’impressione che non la sopportassero più e la considerassero un grande peso.

Era stato così che, dopo mesi, aveva finito per dar retta alla sua più cara  amica e mi aveva telefonato.

Decidemmo quindi di prendere subito di mira la sua estrema sensibilità a rimproveri, osservazioni, ecc., e di affrontarla con una seduta R.E.EM. Leva-Spine (ipnosi vigile regressiva).

Nella seduta R.E.EM. rivisse un episodio di quando aveva 4 anni: lei aveva fatto degli scarabocchi su una delle pareti del salotto; poi suo padre era tornato a casa, aveva litigato con la madre e se n’era andato; lei le era corsa dietro promettendo che non l’avrebbe fatto più, ma lui se n’era andato lo stesso…

Rivide la madre piangere e sentì che questa cosa la spaventava: era convinta che il padre se n’era andato per colpa sua, perché aveva scarabocchiato il muro! Era pervasa dal senso di colpa, disperata, impaurita, perduta, impotente.

Scese dal lettino sorridente, “alleggerita”, ma stupefatta. Mi spiegò che lei ricordava l’episodio, ma non gli aveva mai dato importanza. Invece, rivivendolo, era rimasta sorpresa di quanto l’emozione di allora fosse stata ancora viva dentro di lei.

E, nella rielaborazione razionale dell’esperienza vissuta durante la regressione, capì molte altre cose di se stessa.

Come prima cosa le fu chiaro che da allora aveva vissuto come “la colpevole” e che, per sentirsi al sicuro, aveva avuto bisogno di dimostrare che era brava e buona: “doveva” essere perfetta. Per lei essere “non colpevole” era una questione di vita o di morte.

Capì così che era quello il motivo per cui ogni minima osservazione, specie se fatta dai suoi superiori, la colpiva tanto. Ed era anche quella la ragione per cui sentiva che tutti davano sempre la colpa a lei: ogni volta riemergeva il senso di colpa; ma soprattutto l’angoscia. Infatti mi disse che durante la regressione si era sentita disperata, impaurita, finita: credeva che  il padre e la madre non le volessero più bene per quel che aveva fatto e causato. Fu in quel momento che, per sentirsi al sicuro, aveva giurato a se stessa che, da allora in poi, non avrebbe più fatto nessun danno:  sarebbe stata brava, buona ed obbediente per far contenti i genitori.

E infatti i genitori l’avevano sempre descritta come una bambina “modello”, della quale andavano fieri: la sua strategia di “non essere mai in colpa” aveva funzionato e lei non l’aveva più abbandonata. Così, quando la sua “innocenza” veniva messa in discussione, come spesso accadeva con i superiori, con i colleghi e col marito, “doveva” difendersi ad oltranza  e, se non riusciva ad uscire vittoriosa dallo scontro, veniva presa dal panico.

Si rese conto altresì che i colleghi avevano ragione a dirle che prendeva tutto in modo spropositato; ora lei sentiva di aver preso addirittura tutto, anche l’episodio più banale, come una questione di vita o di morte.

Comprese la sua costante paura di rompere qualcosa, di fare dei danni, di sbagliare; nonché il suo assoluto bisogno di trovare il colpevole, anche per il più banale degli inconvenienti. Ciò accadeva sia a casa che al lavoro: non faceva che discolparsi e distribuire colpe. Il risultato era che i colleghi “ce l’avevano tutti con lei” e, sia in ufficio che a casa, non faceva che litigare, discutere… e mangiare per smaltire la rabbia e l’angoscia.

Riconobbe di aver sofferto di una specie di mania di persecuzione: in effetti  non era presa di mira da tutti, era lei a sentirsi così; ed era ancora lei che, con il suo comportamento, provocava le loro reazioni. Capì inoltre che non riusciva ad ammettere di aver torto per tutto l’oro del mondo: e quindi era costretta a difendersi ad oltranza… “una vita d’inferno”!…

Commentò che i suoi figli e suo marito avevano avuto una gran pazienza con lei: era una prova che l’amavano molto. E capì pure l’intolleranza ed il fastidio che provavano i suoi colleghi verso di lei: in fondo avevano dimostrato una grande pazienza. Decise che dal giorno dopo in ufficio sarebbe iniziata una nuova era: tanto per cominciare, cioccolatini per tutti.

Eliminato il senso di colpa lasciò lo studio sentendosi “libera e leggera”.

Quando tornò il mese successivo per il controllo mi fece una confidenza: mi disse di aver sempre tenuto molto al suo aspetto; ma che faceva fatica a  mantenersi più o meno in linea. Mi spiegò che, per riuscirci, usava un trucco: dopo le “abbuffate consolatorie” faceva un giorno di digiuno e, se lo rompeva, prendeva dei lassativi.

Mi disse che aveva sentito il bisogno di raccontarmi quel suo “segretuccio” perché era molto felice: da dopo la seduta d’ipnosi regressiva, i suoi rapporti, sia in casa che in ufficio erano andati a gonfie vele; così pure il suo rapporto con il cibo: aveva mantenuto il peso senza nessun trucco.

Mi ribadì d’essere ancora stupita per quello che aveva sentito durante l’esperienza R.E.EM Leva-Spine: era riemerso un episodio di quando era molto piccola, che lei neanche credeva di ricordare; soprattutto non si capacitava di come avesse potuto condizionarle la vita così tanto.

Ridendo mi fece un’altra confessione. Mi disse che aveva trovato il nome “Psicoterapia R.E.EM Leva-Spine” un po’ strano; ma ora che ne godeva i risultati lo condivideva a pieno: sentiva di aver vissuto come se avesse avuto sempre una spina piantata al centro del petto che le impediva la respirazione. In effetti era proprio quello il punto dove aveva sentito colpa, paura, dolore, disperazione, angoscia ed impotenza durante la seduta.

 

Marcella del Pezzo è psicologa, psicoterapeuta e neuropsicologa iscritta all’Albo professionale dell’Ordine degli Psicologi Psicoterapeuti della regione Lazio con il numero d’ordine 6235, e opera in conformità alle norme di legge vigenti nella regione medesima e nella Repubblica italiana, nonché a quelle del Codice deontologico professionale.

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